Sultana Razon (F / Italy, 1932), Holocaust survivor

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Sultana Razon (F / Italy, 1932), Holocaust survivor

Vittoria Razon (F / Italy, 1934), Holocaust survivor

CDEC

Sultana Susanna Razon, figlia di Nissim Raffaele Razon e Regina Afnaim è nata in Italia a Milano il 24 agosto 1932. Dai genitori acquisisce la cittadinanza turca. Arrestata a Taglio di Po (Rovigo). Deportata da Fossoli nel campo di concentramento di Bergen Belsen nell'agosto 1944. È sopravvissuta alla Shoah. Liberata il 4 marzo 1945.

Vittoria Razon, figlia di Nissim Raffaele Razon e Regina Afnaim è nata in Italia a Milano il 17 settembre 1935. Dai genitori acquisisce la cittadinanza turca. Arrestata a Taglio di Po (Rovigo). Deportata da Fossoli nel campo di concentramento di Bergen Belsen nell'agosto 1944. È sopravvissuta alla Shoah. Liberata il 4 marzo 1945.

Le famiglie di Taglio di Po

Anche a Taglio di Po vi sono famiglie di ebrei stranieri costretti all’internamento libero ed in particolare due famiglie di ebrei turchi imparentate tra loro.

La famiglia Razon, composta da Nissim, la moglie Regina Afnaim, con le figlie Sultana e Vittoria, e la famiglia Afnaim composta da Salomone Afnaim, fratello di Regina, sua moglie Lea Dana e i figli Leone e Vittoria, con loro era anche la madre di Regina e Salomone, Vittoria Ciprut vedova Afnaim.

I Razon e gli Afnaim vivono in Italia ormai da molti anni, tutti e quattro i bambini sono infatti nati a Milano, dove le due famiglie si sono stabilite dopo aver lasciato la Turchia in seguito alla crisi economica del 1929. Hanno conservato comunque i loro passaporti turchi. La Turchia era nazione ufficialmente neutrale, ma in realtà impegnata in un doppio gioco di rapporti con la Germania da un lato e l’Inghilterra e la Russia dall’altro, per aver mire espansionistiche sui territori controllati dai contendenti.

Nel ’41 Nissim Razon viene catturato in uno dei rastrellamenti di Milano ed inviato al campo di Ferramonti di Tarsia in Calabria, senza poter avvertire la famiglia.

Per mesi la moglie e le figlie non hanno notizie, poi, appena Regina viene a sapere che il marito è nel campo di concentramento in Calabria, prende le due figlie e lo raggiunge in treno il 24 agosto del ’41. Nel campo la famiglia riunita rimane un anno per essere poi trasferita a Rovigo e di lì a Taglio di Po, in una casetta con giardino che consentirà l’allevamento di qualche gallina.

A Taglio di Po nel frattempo sono stati internati anche gli Afnaim, le due famiglie sono state accolte con benevolenza dalla popolazione locale e la loro vita, seppur isolata a causa delle norme che impediscono loro contatti troppo ravvicinati, è comunque accettabile (Leone Afnaim e Susanna Razon frequentano le scuole elementari). Qui sono raggiunti dalla notizia dell’armistizio, vedono i cittadini di Taglio di Po esultare alla notizia e si illudono di poter tornare ad una vita normale.

Per loro, come per molti altri internati, si apre, invece, la parentesi drammatica della persecuzione dei Nazisti alleati alla Repubblica Sociale Italiana, a dicembre 1943, tutta la famiglia viene arrestata e tradotta in carcere a Rovigo. I bambini non possono rimanere in carcere e quindi, dopo una drammatica notte trascorsa soli fuori dal carcere, vengono riportati da una guardia a Taglio di Po.

Il Podestà del paese, nel corso di una assemblea pubblica, chiede se qualcuno tra la popolazione vuole accogliere i bambini.

Quattro bambini da accudire in età compresa fra i 7 e gli 11 anni, in “tempo di guerra” sono un compito gravoso di cui nessuno vuole farsi carico, salvo una contadina il cui marito era in guerra, e che viveva in una casa isolata. Questa donna divide con i bambini i sacchi di paglia per dormire e le poche cose che costituiscono i suoi arredi. I bambini rimangono soli tutto il giorno, mentre la donna è in campagna a lavorare, e devono procurarsi da mangiare, così Susanna, la maggiore, va in giro ad elemosinare cibo e vestiti. Le suore del vicino orfanotrofio, le danno una minestra al giorno da dividere in quattro. Un giorno il Parroco convoca Sultana e le propone la conversione al cattolicesimo, Sultana rifiuta ma… niente conversione, niente minestra, e ricomincia la ricerca di ogni cosa commestibile, oltre alla lotta contro i parassiti che proliferavano nella miseria e nella sporcizia.

A giugno del ’44 i bambini vengono prelevati, riportati ai genitori nel carcere di Rovigo e con loro trasferiti a Fossoli, campo di transito per la Germania. Tutta la famiglia viene deportata a Bergen Belsen il 2 agosto del ’44 passando da Verona.

Nel campo situato nel nord della Germania, la famiglia vive tutte le traversie dei deportati ma riesce a sopravvivere grazie ai passaporti turchi e al fatto che la Turchia continua a mantenersi neutrale fin quasi alla fine della guerra. Il timore di ritorsioni turche in caso di danni a suoi cittadini, fa sì che la Germania non proceda allo sterminio degli ebrei turchi. La Turchia dichiarerà guerra alla Germania solo nel febbraio ’45. Prima della liberazione del campo i Razon e gli Afnaim vengono ripuliti e caricati su un treno con viveri sufficienti per raggiungere Goteborg in Svezia a seguito di uno scambio di prigionieri con la Turchia.

La vicenda delle famiglie Razon e Afnaim non sono frutto di ricerca in archivio di Taglio di Po che, fortemente danneggiato dall’alluvione del ’51, ma sono ricavate da un’intervista a Susanna (Sultana) Razon, oggi moglie del professor Umberto Veronesi, raccolta dalla storica Sara Valentina Di Palma nel libro “Bambini ed adolescenti nella shoah. Storia e memoria della persecuzione in Italia”, ediz. Unicopli. Delle famiglie si ricorda però un testimone di Taglio di Po che frequentò un anno le elementari con Leone Afnaim e che ha conservato la foto della classe in cui il giovane Leone, lo spilungone al centro della foto nella seconda fila, posa con gli altri in divisa da “balilla”.

Centro Asteria

Per il mese della Memoria, Sultana Razon Veronesi ha incontrato al Centro Asteria più di 1600 studenti provenienti da tutto il nord Italia per raccontare la sua storia: la Sig.ra Razon non porta con sé solo la testimonianza della deportazione nei campi di concentramento, ma anche la storia di una donna che, nonostante le sofferenze e le crudeltà subite, ha fatto del proprio passato il motore per un futuro di Bene basato sulla medicina e sul prendersi cura dei più deboli.

“Ero solo una bambina e non ricordo esattamente l’inizio di tutto quanto. Ricordo che quell’anno, nel 1939, mia madre smise di cantare – lei cantava sempre – e iniziò a piangere ogni giorno. Quando me ne accorsi, iniziai a capire che qualcosa di brutto stava per succedere”.

Sultana e la sua famiglia, ebrei di origine turca, abitavano a milano quando un giorno nel 1939 suo padre non rientrò a casa dopo il lavoro. Solo dopo qualche mese, scoprirono che era detenuto nel campo di concentramento di Terramonti di Tarsia.

“Partimmo subito per raggiungerlo senza sapere cosa ci avrebbe atteso varcato il cancello. Era il mio compleanno, ed ero felicissima perchè pensavo che fosse una gita”.

Quell’ingresso volontario nel campo di Terramonti di Tarsia – sotto gli sguardi sgomenti delle guardie – fu l’inizio dell’incubo che Sultana e la sua famiglia vissero fino al 1945, ma forse anche la loro salvezza. Qualche tempo dopo furono deportati nel campo di concentramento di Bergen Belsen, dove vissero sulla propria pelle gli orrori del nazismo.

“Mio padre ci salvò la vita. Portava sempre con sé i nostri documenti turchi, anche se erano scaduti perchè anni prima si rifiutò di svolgere servizio militare in Turchia perdendo di conseguenza la cittadinanza. Quando, dopo 4 giorni di viaggio, scendemmo dal vagone a Bergen Belsen quei vecchi documenti ci consentirono di essere rinchiusi in una sezione a parte del campo, dedicata ai detenuti degli stati neutrali: svizzeri, spagnoli e turchi. Nel campo ci rendemmo conto di quello che stava succedendo. Nessuno ne aveva idea fino a quel momento. Ricordo gli appelli. Ecco, gli appelli erano strazianti. Venivano fatti tutti i giorni più volte al giorno e duravano ore. Di inverno la neve arrivava a coprirmi tutta la gamba, e noi stavamo lì in piedi per ore nella neve vestiti solo con il grembiule a righe e gli zoccoli. Delle volte qualcuno durante questi appelli cadeva a terra, e non si rialzava più”.

Sultana ricorda lo sgomento nel momento in cui, in quella situazione disperata, suo padre decise che lei e sua sorella avrebbero dovuto imparare il francese.

“Mio padre ci obbligò a imparare il francese perchè, oltre al tedesco, era la lingua più utilizzata all’interno del campo di concentramento. Noi prendemmo lezioni da un detenuto, in cambio di una porzione di zuppa. È grazie a quel signore che io parlo francese, ma solo crescendo ho capito il grande gesto di mio padre. Pativamo la fame, e lui ha rinunciato a quel poco che avevamo per fare in modo che la cultura potesse essere per noi un’arma per salvarci”.

Nel 1945, qualche giorno prima dell’arrivo degli alleati, di nuovo la beffa.

“Erano settimane che non ci davano più da mangiare, erano pochi i militari rimasti al campo, c’erano cadaveri ovunque e ormai più nessuno se ne occupava. Eravamo abbandonati a noi stessi, quando è arrivato l’ultimo appello. Chiamarono tutti i detenuti turchi, noi non volevamo avanzare per paura che fosse arrivato il nostro momento. Invece ci fecero uscire dal campo, ci caricarono su un treno e ci diedero pane e zuppe. Mia madre ebbe la giusta intuizione di somministrarcelo poco per volta. La maggior parte di chi si sfamò rapidamente perse la vita in quel vagone. Io ero molto malata e avevo paura di fare la stessa fine. Quando scendemmo dal treno ci imbarcarono su una nave diretta in Turchia; scoprimmo che la Turchia era entrata in guerra contro la Germania e noi eravamo detenuti da scambiare.”

Erano i primi sopravvissuti. Attraccati in Turchia dopo un viaggio lunghissimo però, le autorità non li lasciarono liberi per via dei documenti scaduti. Per legge, non potevano più essere considerati cittadini turchi e dunque furono nuovamente imprigionati.

“Per noi era più un Hotel che una prigione. Era vicino al mare, ci davano da mangiare. Nulla di paragonabile a quello che avevamo appena vissuto”.

Seppure imprigionati, fu finalmente un piccolo passo verso la loro vita. Dopo la liberazione, nel gennaio 1945 Sultana e la sua famiglia tornarono finalmente in Italia, a Milano, una delle pochissime famiglie che riuscì a fare ritorno dal campo di concentramento rimanendo sempre unita.

“Non avevamo più niente, ma eravamo liberi e per noi era tutto. Di tutto quello che successe non ne parlammo mai per 50 anni. Io e i miei genitori non ne abbiamo mai più fatta parola.“

Dire che Sultana Razon è una sopravvissuta e basta significa lasciare che tutta la sua vita rimanga schiacciata sotto l’etichetta del suo passato. La sua è una storia di riscatto e di rivincita, di una donna che nonostante tutto il male subito ha deciso di pensare al prossimo e prendersi cura di lui.

“Una volta sistemati a Milano mi sono subito data da fare. Ho recuperato gli anni scolastici che mi mancavano studiando da sola a casa e ho dato tutti gli esami. Poi il liceo e la decisione di occuparmi della salute delle persone iniziando a studiare medicina. Nei campi di concentramento ho visto tante di quelle malattie che prendermi cura delle persone è stata una scelta quasi naturale per me.”

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