Samuele Dana (M / Italy, 1932), Holocaust survivor

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Samuele Dana (M / Italy, 1932), Holocaust survivor

Mosè Dana (M / Italy, 1931), Holocaust survivor

Stella Dana (F / Italy, 1937), Holocaust survivor

Biography

Mosè Dana, figlio di Salomone Dana e Malcunna Boton è nato in Italia a Milano il 5 febbraio 1931. Arrestato a Milano (Milano). Deportato da Milano nel campo di concentramento di Bergen Belsen nel maggio 1944. È sopravvissuto alla Shoah. Liberato il 4 marzo 1945.

Samuele Dana, figlio di Salomone Dana e Malcunna Boton è nato in Italia a Milano il 5 dicembre 1932. Arrestato a Milano (Milano). Deportato da Milano nel campo di concentramento di Bergen Belsen nel maggio 1944. È sopravvissuto alla Shoah. Liberato il 4 marzo 1945.

Stella Dana, figlia di Salomone Dana e Malcunna Boton è nata in Italia a Milano il 28 novembre 1937. Arrestata a Milano (Milano). Deportata da Milano nel campo di concentramento di Bergen Belsen nel maggio 1944. È sopravvissuta alla Shoah. Liberata il 4 marzo 1945.

Testimonianza di Mosè Dana

La testimonianza di Mosè Dana. Ebreo deportato da Milano nel lager di Bergen-Belsen con tutta la famiglia. Verso la fine del 1930 a Milano in via Espinasse al numero 5, abitavano alcune famiglie di religione ebraica. La casa era quella detta di ringhiera cioè alla fine di ogni rampa di scala c’era un lungo ballatoio dal quale si entrava in ogni singolo appartamento che consisteva in due locali, la cucina e la camera da letto. Il bagno era in comune sul ballatoio. Noi abitavamo al terzo piano ed eravamo fortunati perché il nostro appartamento era situato prima dell’inizio della ringhiera, era più grande (3 stanze) ed aveva il bagno interno. Il nostro nucleo famigliare era formato da mio padre Dana Salomone, da mia madre Botton Malkuna che noi chiamavamo Margherita. Poi venivo io, Moshè Moise, che nel 1938 avevo 7 anni, mio fratello Samuele di 5 anni e mia sorella Stella di un anno. Poi c’erano i nonni, genitori di mio padre, Michon (Moshè) Dana ed Ester Sarfatti. Noi bambini eravamo nati a Milano ma la mia famiglia proveniva da Istanbul e in casa parlavamo in ladino (un dialetto giudeo-spagnolo) perché come tutti gli ebrei di Istanbul, erano discendenti degli ebrei cacciati dalla Spagna nel 1492 a seguito dell’Inquisizione. Mia madre la chiamavamo Mercada che significa comprata perché da bambina era stata molto malata e a quei tempi in Turchia quando un bambino stava male si fingeva di venderlo e poi di ricomprarlo in modo da salvargli la vita. Lungo la ringhiera, alla seconda porta abitava la famiglia della sorella di mia madre, Fortuna con il marito Josef Gallico e due figlie Ester e Fanny. Dopo di loro abitava la famiglia Coen, composta da una signora vedova che noi chiamavamo Madame Rachel, con due figli già adulti, Roberto e Luisa. Nella ringhiera a fianco abitava il fratello di mio padre, Shabatai che era il più giovane, con la moglie Zaffira che veniva da Izmir. Avevano una figlia, Stella (dopo la guerra nacque la seconda figlia, Rosa). Nell’appartamento successivo abitava un altro fratello di mio padre, Vitali, il quale aveva sposato una ragazza di religione cattolica ed avevano una figlia di nome Stella. Un altro fratello di mio padre abitava in via Castelvetro che non era lontano da via Espinasse. Si chiamava Isacco, era sposato con Rachel Luna Gallico e aveva quattro figli (Moshè, Stella, Salvatore e la neonata Ester). In via Casella abitava la moglie di Josef (Giuseppe) Dana, un altro fratello di mio padre, Lea Rebecca Behar, rimasta vedova con due figlie, Stella e Sara. In Corso Sempione 96 abitava la sorella di mio papà, Lea, con il marito Salomone Afnaim e i figli, Leone e Vittoria. Le porte del nostro appartamento erano sempre aperte e si può dire che tutti quelli che abitavano al terzo piano venivano a casa nostra a chiacchierare. A fianco del nostro portone c’era un bar che aveva un giardino con il pergolato e un grande campo di bocce. In estate dalla ringhiera ci divertivamo a guardare le partite di bocce. E nelle sere calde andavamo a sederci ai tavolini sparsi sulla ghiaia a chiacchierare e bere gazzosa fredda. In via Espinasse io avevo molti amici con i quali andavo a giocare. A fianco della casa c’era uno scavo (che noi chiamavamo prato) dove andavamo a giocare con le figurine e con i soldatini di carta che fungevano da moneta di scambio. Un amico possedeva un mazzo di carte e spesso giocavamo a sette e mezzo. Si giocava anche a palla ma non a calcio. Con gli amici parlavo in dialetto milanese e mi sentivo come uno di loro. Ma un giorno, arrivai al prato, e uno di loro mi si avvicinò e dandomi uno spintone disse: “tu vai via che sei ebreo” e tutti gli altri in coro si misero a cantare ebreo, ebreo. Anche nei giorni a seguire appena mi vedevano mi urlavano “ebreo, ebreo”. Una domenica mattina capitò una cosa che non ho mai più dimenticato: stavo andando all’edicola con mio papà, mano nella mano, per comprare il Corriere della Sera e per me il Corriere dei Piccoli, quando passando davanti al prato i ragazzini cominciarono a urlare “ebreo, ebreo”, mio padre fece finta di rincorrerli e loro cominciarono a scappare da tutte le parti come topi. Io mi sentii rassicurato e protetto come da una mano di un gigante. Poi a tutti venne tolta la cittadinanza italiana e con questo il diritto a esistere. Mio padre che nel frattempo aveva continuato a pagare la tassa annuale al consolato turco, riottenne il passaporto turco. Nel 1938 le leggi razziali gli impedirono di continuare a fare il venditore ambulante, gli ritirarono la licenza e i posti nei mercati. I vicini di banco furono contenti perché avevano un concorrente in meno e nessuno espresse una parola di solidarietà, ci fu la più totale indifferenza nei confronti di ciò che ci stava succedendo. A me fu impedito di andare alla scuola del quartiere che frequentavo. Rimasti senza lavoro cominciammo a patire la fame poiché i negozianti non intendevano fornirci i generi alimentari a credito. Mio papà si mise in società con amico, anche lui ebreo, Samuele Romano, che conosceva bene le fabbriche di calze intorno a Milano. Insieme andavano con il treno della FNM nei dintorni di Saronno. Si caricavano di grossi pacchi di calze e al rientro a Milano, già presso la stazione, rivendevano la merce. In quel periodo si facevano delle riunioni la sera a casa nostra tra gli ebrei del nostro ballatoio, per decidere sul da farsi circa la nostra condizione di ebrei. C’è chi diceva che bisognava lasciare l’Italia e tornare in Turchia. Ognuno esprimeva la propria idea ma poi non si veniva a capo di nulla. Lasciare l’Italia non era cosa semplice perché le frontiere erano chiuse e poi con il treno bisognava attraversare dei paesi che erano occupati dai nazisti. Nel 1941 facevo la quarta elementare in via Eupili. Tutte le mattine mia mamma ci accompagnava a scuola con il tram numero 6 che passava sotto casa. Scendevamo all’inizio di via Canova. Alle 12 tornava a riprenderci. Il mio profitto a scuola era buono, mi piaceva studiare e questo grazie alla maestra di cui non ricordo il nome ma credo venisse dal Piemonte forse da Vercelli.

In classe con me c’era il figlio del prof. Colombo, il preside della scuola. Noi lo chiamavamo Colombino perché era il più piccolo. Era il migliore della classe. Quando uno riceveva un bel voto, la maestra gli faceva fare una firma su un registro, e la firma prevalente era quella di Colombino.

Un giorno del 1941, la via Espinasse era in subbuglio. Dalla finestra vedevamo la gente correre a prendere il tram. Anche nel nostro palazzo l’eccitazione era al massimo. Lo zio Vitali che era l’unico a possedere una radio (proibita agli ebrei) ci disse che il duce doveva fare un discorso importante e così tutti andavano in piazza del Duomo ad ascoltare la sua voce dagli altoparlanti. Mio padre ed io ci recammo in piazza del Duomo. Non avevo mai visto tanta gente in vita mia. Anche le vie laterali erano colme di gente. Io che ero piccolo non vedevo altro che le schiene delle persone. Poi dagli altoparlanti uscì una voce. Da quello che potevo capire mi sembrava una dichiarazione di guerra all’Inghilterra e la folla sembrava essere contenta ed entusiasta. Ad ogni frase urlava e applaudiva e ogni tanto si alzava un coro che gridava “duce, duce” Al ritorno a casa passammo davanti ad una drogheria, mio padre voleva comprare qualche bottiglia di olio di oliva ma il negoziante gli disse che poteva vendere solo una bottiglia a famiglia. Passò qualche giorno, dalla finestra vidi passare numerosi giovani che andavano ad arruolarsi per la guerra. Poi cominciarono gli allarmi notturni. Quasi ogni notte suonava l’allarme e dovevamo scendere in cantina che avevamo attrezzato con delle panche. C’era una grande puzza di muffa e di pattumiera. Si restava lì seduti a parlare per un’ora a volte anche due ore. Dopo un po’ di sere alcuni, nonostante l’allarme, non scendevano. Una notte credo fosse agosto, faceva molto caldo e c’era la luna piena che rischiarava la città quasi fosse giorno. Suonò l’allarme e in pochi ci ritrovammo in cantina. Poco dopo convinsi mio padre a portarmi fuori all’aperto a respirare un po’ d’aria. D’un tratto però sentimmo il rombo di aeroplani farsi sempre più forte. Vicino a noi c’era l’Alfa Romeo attorno alla quale erano posizionati i cannoni antiaerei. Scoppiò l’inferno. Il cielo si tinse di rosso. Volevo rimanere lì a guardare attratto dalle scie luminose delle fotoelettriche ma mio padre mi trascinò via afferrandomi per un braccio. Intanto si era creata una gran confusione nel palazzo, tutti quelli che non erano scesi al suono dell’allarme, si stavano precipitando giù per le scale in pigiama. Le panche non erano sufficienti per far sedere tutti. Si sentivano le bombe cadere e ad ogni bomba la casa vibrava. Quella notte cessati i bombardamenti nessuno tornò a dormire. Andammo a vedere cosa era successo lì intorno a noi. Scorgemmo la zia Lea correre piangente verso di noi con i due figli per mano. Era sola perché lo zio Salomone era stato inviato come tutti i maschi apolidi al confino in un paese vicino a Potenza, Montemilone (in realtà fu internato e arriverà dal campo fascista di Ferramonti di Tarsia al campo di Casoli in data 1.10.1941 ndr). La sua casa era stata rasa al suolo da una bomba. Erano salvi perché si erano rifugiati nella cantina della casa attigua. Anche il marito della sorella di mia mamma era stato mandato al confino. Dopo quella notte gli allarmi notturni si ripeterono ma senza più bombardamenti. Mio padre pensò che fosse troppo pericoloso restare in città così chiese al suo socio che nel frattempo era stato confinato in quanto apolide insieme alla sua famiglia dai fascisti, a Calcinato, in provincia di Brescia insieme alla famiglia, di ospitarci. Arrivammo così a Ponte San Marco un paese prima di Brescia. Da lì con una carrozza a cavalli percorremmo i 5 km per arrivare a Calcinato. Calcinato era un paesino di agricoltori situato su una piccola altura. In cima c’era la grande chiesa con il suo campanile che dominava il paesino. La famiglia di Samuele Romano che ci ospitava era formata dalla moglie Clara, dalle figlie Susanna e Sara. La casa era situata in un grande cortile rettangolare attorno al quale c’era un porticato. Dal porticato si accedeva agli appartamenti. Lì abitavano anche il signor Davide Salinas, la moglie Virginia Romano e due figli Giuseppe e Sara. La signora Virginia era sorella del signor Samuele. Insieme a loro viveva il signor Davide Barbouth, un giovane scapolo. Erano tutti obbligati al confino. La casa del signor Samuele era abbastanza grande, così in un secondo tempo arrivò ad abitare anche il signor Giacomo Hodara con la moglie Sara e i figli Filippo e Luisa di appena un anno, sfollati anche loro a causa dei bombardamenti. Intorno al cortile vi erano altre famiglie di milanesi sfollati. Nonostante la guerra, in paese non mancava niente. Pagando a borsa nera avevamo farina e quindi il pane bianco, l’olio, il burro, tutte cose che in città non era possibile trovare. Mio padre trascorreva tutta la settimana a Milano e il venerdì sera tornava da noi sempre con dei doni: matite colorate e album da disegno. Poi ci si riuniva tutti nella grande cucina, che fungeva da sala di ritrovo, e tutti insieme si recitava la preghiera Arvith del venerdì sera che accoglieva l’entrata dello Shabbat (giorno di riposo per gli ebrei). In quel periodo andavo a studiare insieme a Sara Romano privatamente da una maestra a Calcinatello il programma di V elementare. La maestra era molto brava e preparata e io adoravo studiare e imparare. Per arrivare a Calcinatello dovevamo fare parecchia strada a piedi. Ricordo che a volte dalla cucina, attigua al salotto dove facevamo lezione, si sentivano delle voci che animatamente discutevano. Erano degli antifascisti che si riunivano nella casa della maestra. Un venerdì mio padre si presentò con due biciclette e trascorsi parecchi giorni ad insegnare agli altri ragazzi ad andare in bicicletta. Il signor Samuele aveva una bicicletta detta da trasporto provvista di due grossi portapacchi, uno davanti e uno dietro, sui quali caricava due bambini e con i quali andava al mercato di Montichiari con un permesso speciale che gli forniva il maresciallo del paese. In fondo al paese c’era una collinetta che noi chiamavamo “dei Tre alberi” perché in cima c’erano tre alberelli striminziti. Spesso andavamo lassù a rimirare il panorama dei paesini sottostanti. Sotto la collinetta c’era anche il cinema dei preti. Il sabato e la domenica quando c’erano anche mio papà e il signor Giacomo Hodara, si andava tutti dalla Gritti, un Bar che aveva il gioco delle bocce. Si facevano dei tornei con gli abitanti del paese. Durante la settimana invece andavamo a pescare insieme al signor Barbouth nel torrente vicino. D’estate poi mio padre si fermava da noi qualche giorno di più e allora ne approfittavamo per andare a Desenzano sul Garda dove si poteva anche fare il bagno nel lago. Poi venne l’8 settembre 1943, la caduta del fascismo. In paese quel giorno ci fu gran festa. La gente sfilava per le strade cantando e urlando, agitando bandiere che avevano tenuto nascoste per tanto tempo. La Gritti quel giorno offrì da bere a tutti. Ma l’indomani tutto tornò come prima. Poi il Duce venne liberato dai tedeschi dal Gran Sasso dove era stato portato e tutto cominciò a peggiorare. Le colline intorno al paese si riempirono di truppe di tedeschi. Finché un giorno venne il maresciallo ad avvisarci che aveva avuto l’ordine di arrestarci tutti e ci consigliava di lasciare il paesino. Così la mattina seguente all’alba ci trovammo in cortile ad aspettare la carrozza che ci avrebbe portati alla stazione. Il nostro amico Bobi un cane del cortile, sembrò capire che saremmo partiti per sempre e ci seguiva mentre portavamo all’esterno le valige. Poi quando montammo in carrozza venne dietro di noi correndo per qualche centinaio di metri finché si fermò e rimase immobile a guardarci mentre ci allontanavamo all’orizzonte. Tornammo a Milano dove la situazione era tragica. I nonni che erano rimasti a Milano perché troppo anziani per spostarsi, ci comunicarono che la zia, vedova dello zio Giuseppe, era stata catturata durante una retata mentre si era recata alla sinagoga di via Guastalla per ritirare un sussidio. La figlia Stella era nascosta nella casa di una vicina e l’altra figlia Sara era a Pietra Ligure in Ospedale. Quando arrivarono i fascisti nella loro casa non trovarono nessuno. Se ne stavano andando quando la custode del palazzo li richiamò per mostrare loro una cartolina della figlia Sara da Pietra Ligure. Così anche Sara venne prelevata dall’ospedale e deportata ad Auschwitz da dove non fece più ritorno. La moglie dello zio Isacco si era rifugiata a Ballabio, venne arrestata assieme ai figli Salvatore, Sara e la piccola Ester di qualche mese. Il figlio grande Moise era in quel momento in montagna a raccogliere la legna. Tornando a casa e non trovando più nessuno si recò presso il comune perché voleva ricongiungere con la famiglia. Fortunatamente alcuni paesani gli consigliarono di scappare. Così fece. Riuscì a tornare a Milano dove si nascose nei ruderi di una casa bombardata nei pressi di via Espinasse. Nel frattempo lo zio Isacco era venuto ad abitare con noi. All’alba dell’8 maggio del 1944 bussarono alla porta. Quando mia mamma aprì la porta, quattro ragazzotti con la pistola in mano si precipitarono dentro guardando in tutte le stanze. Quello che sembrava il capo ci disse di vestirci perché ci dovevano portare al comando di polizia solo per poco tempo e quindi ci disse di non prendere con noi altro. Al portone vedemmo anche la signora Coen che era zoppa, insieme ai figli. Ci portarono con il tram a San Vittore. Nell’atrio trovammo tante altre famiglie ebree in attesa di entrare nell’ufficio dove un soldato tedesco registrava nome e cognome su un grosso libro. Aspettammo diverse ore prima di entrare in quell’ufficio, poi un secondino ci portò al Quinto Raggio al terzo piano. Lì c’era tantissima gente, tutti ebrei. Le celle erano tutte aperte e molte persone sostavano o camminavano lungo la ringhiera. A noi toccò una grande cella con altre venti persone con le quali dormivamo per terra. Alcuni li conoscevamo perché di origine turca. I secondini erano brave persone e si dispiacevano a vedere dei bambini rinchiusi nel carcere. A volte consegnavano dei messaggi di noi prigionieri ad amici o parenti che stavano all’esterno. A volte al mattino trovavamo delle merendine che ci avevano portato per farci mangiare qualcosa. Le voci che circolavano tra le persone lungo la ringhiera non erano rassicuranti. Si diceva che i nazisti torturassero le persone e facessero ripulire i gabinetti con la lingua. Lo zio Isacco che era con noi nella cella, sentì che le persone delle celle accanto erano italiani e apolidi. Pensando di potersi ricongiungere con i suoi famigliari catturati a Ballabio, si dichiarò apolide e quindi venne spostato di cella. Una mattina, al nostro risveglio notammo che nelle altre celle non c’era più nessuno. Di notte erano stati prelevati e portati in Germania. Passarono otto giorni. E arrivò il nostro turno. Il 19 maggio, all’alba, ci fecero salire su un camion. Ci diedero un pezzo di pane e un pezzetto di formaggio. Fummo trasportati alla Stazione Centrale e arrivammo, attraverso un cunicolo, direttamente a un binario dove sostava un carro bestiame. Ci fecero salire. E poi con un ascensore il treno venne portato al primo piano dove c’era la stazione. Eravamo tanti. Così tanti che non era possibile nemmeno allungare le gambe. Noi eravamo fortunati perché potevamo appoggiare la schiena alla parete del vagone. Al centro del carro c’era un bidone per i bisogni. Non mi ricordo quanti giorni durò il viaggio, ma fu terribile. Ricordo ancora la fame, la sete, l’aria soffocante, le urla dei bambini. Forse il viaggio durò in tutto cinque giorni. Una mattina aprirono le porte, eravamo al Brennero e faceva abbastanza freddo. Il cielo era azzurro e l’aria era profumata e cristallina. Mia madre ebbe il coraggio di chiedere a un soldato delle SS di potersi allontanare insieme a me per portarmi al bagno. Il soldato acconsentì. Ci recammo dietro una siepe; al di là della siepe c’era la strada. Eravamo completamente soli e io pensai che avremmo potuto scappare. Ma mi ricordai che ci avevano avvertito che se qualcuno fosse scappato avrebbero ammazzato tutti gli altri che erano sul treno. Così tornammo e poi il treno ripartì. Fece un’altra fermata in Germania e in un’altra stazione si fermò per un giorno intero a causa dei bombardamenti. Poi quando le porte vennero riaperte, eravamo nel campo di Bergen Belsen vicino alla città di Hannover. Ci portarono in un posto pieno di baracche di legno. Ci trovammo insieme a migliaia di ebrei provenienti dall’Olanda. Ricordo che appena arrivati c’era un soldato delle SS seduto su uno sgabello dietro a un tavolino che cominciò a chiamarci uno ad uno per registrare i nostri nomi su un foglio. Fummo divisi tra uomini e donne. Gli uomini in una baracca e le donne in un’altra. Mio fratello, che era più piccolo di me, potè andare con mia mamma e mia sorella, mentre io andai con mio papà. Ricordo che il kapò a noi assegnato si chiamava Albala. All’alba veniva fatto l’appello. Ci mettevano in fila per cinque. Una mattina, mentre tutti erano fuori per l’appello, a me e un altro giovane avevano detto di rimanere nella baracca. Dopo alcune ore arrivarono due guardie delle SS a contare i prigionieri. Poi entrarono nella baracca. Il Kapò parlo con il nazista e poi cominciarono a prendere a pugni e a calci il mio compagno di baracca finchè non cadde a terra tramortito. Io ero terrorizzato sicuro che poi sarebbe toccata anche a me la stessa sorte. Chissà invece per quale motivo se ne andarono lasciandomi solo. Tornai alla mia branda, mi sdraiai e cominciai a contare mentalmente lo scorrere del tempo. Sessanta secondi facevano un minuto e sessanta minuti avrebbero fatto un’ora. Andai avanti così in attesa che mio padre tornasse dal lavoro forzato. Quando mio padre rientro a metà giornata insieme a tutti gli altri prigionieri per mangiare la ciotola di zuppa che ci spettava, mi raccontò che non si era stancato molto perché gli avevano fatto staccare la suola dalla tomaia di vecchi e consumati scarponi dei soldati. Rimanemmo in quel campo forse una settimana e in tutto quel tempo, nonostante fossimo liberi di girare, non riuscii a incontrare mia mamma. Poi un giorno tornò quel soldato con il tavolino e lo sgabello e chiamò a raccolta il gruppo del nostro trasporto. Riscrisse i nomi chiamandoci uno ad uno e poi ci condusse in una parte dove c’era un recinto più piccolo e una sola lunga baracca. Questo era il campo degli ebrei provenienti da Salonicco che possedevano passaporto spagnolo (anche la Spagna era neutrale come la Turchia). Qui non eravamo costretti a lavorare. Tutte le mattine c’era l’appello. Ci tenevano in piedi per 4 o 5 ore in fila per 5 fino a che arrivava un soldato delle SS incaricato al conteggio. La baracca era divisa in due parti. Da una parte stavano gli uomini, dall’altra le donne. In mezzo c’erano dei lavatoi. Le latrine erano lontane, vicino al reticolato dove c’era una torretta di legno con un SS di guardia. La latrina consisteva in una baracca apparentemente uguale a tutte le altre. All’interno c’era una lunga panca con tanti buchi. Quando potevo mi facevo accompagnare da mio papà in modo che non facesse entrare nessun altro quando io ero dentro. Nella nostra baracca c’era anche una stanzetta all’ingresso che in inverno fungeva da punto di ritrovo. C’erano dei tavoli e delle panche e anche una stufa. Due volte alla settimana ci portavano del pane che dividevamo in parti uguali con una bilancia costruita con dei pezzetti di legno e dei sassolini che fungevano da pesi. Un litro di acqua corrispondeva a un kg. Insieme al pane ci davano anche un pezzetto di margarina a testa. A metà giornata, a turno, scortati da un soldato delle SS, quattro persone andavano nelle cucine a prendere dei bidoni pieni di zuppa fatta di acqua, crauti e rape. L’incaricato di quel giorno doveva dividere la zuppa con un mestolo. Ricordo che un giorno che era il turno di mio padre, ci fu una gran confusione perché mio papà sollecitato da quelli che chiedevano di aggiungere un po’ di minestra in più, aveva riempito troppo le ciotole e la minestra non bastò per tutti. Poi si doveva riportare i bidoni vuoti e questa mansione era ambita da tutti perché durante il tragitto, qualcuno riusciva a rubare qualche rapa. Io ammiravo quei coraggiosi che ritornavano al campo con quel trofeo, così quando fu il mio turno, ero felice. Ma non fui così fortunato perché per rubare una rapa dal mucchio provocai una valanga e il soldato che in genere faceva finta di non vedere, fu costretto a guardare e mi riempì di manganellate. Quando tornai nella baracca mia madre quasi svenì nel vedermi così conciato ma io mi sentivo un eroe tanto da non sentire il dolore. L’inverno era freddissimo e le ore che passavamo all’aperto per l’appello erano durissime soprattutto per i più anziani. Anche se poi all’interno della baracca avevamo una stufa accesa, eravamo tutti convinti che da lì non saremmo usciti vivi. Cercavamo di mantenere alto il morale e così in occasione della festa di Hanukka preparammo una recita con canti e balli. Ricordo che nella baracca accanto c’erano i fratelli Sciaky di circa quarant’anni. Erano affascinati dall’oro e pur di avere delle sterline d’oro erano disposti a volte a cedere le loro razioni di minestra. Dopotutto le sterline d’oro avevano poco valore per noi che eravamo convinti che non saremmo usciti vivi dal quel Campo. Quando si stava tranquilli a chiacchierare si finiva sempre per parlare di cucina e c’era sempre qualcuno che descriveva piatti di cibo con una tal dovizia di particolari che a noi sembrava quasi di mangiarli. Con noi c’era anche un vecchio banchiere di Salonicco che aveva una gamba di legno. La gamba di legno era fatta così bene che non era facile accorgersene. Questa persona conosceva tante lingue e in cambio di qualche cucchiaio di minestra si era reso disponibile a insegnare a me e ad altri due ragazzi, un po’ di francese. Per scrivere utilizzavamo i bordi di vecchi giornali e dei mozziconi di matita. Era così bravo che in breve tempo imparammo davvero a parlare e capire il francese. Verso la fine dell’inverno le cose precipitarono, ci trasferirono in un campo molto più piccolo. I letti costituiti da tavole di legno e basta, erano a tre piani e su ogni tavola bisognava dormire in due. Le coperte erano piene di pidocchi e la latrina era un buco nel terreno. A fianco al buco c’era un’asse di legno sporca e traballante. Un giorno il povero insegnante greco con la gamba di legno, cadde dentro la latrina e furono necessarie alcune persone per riuscire a tirarlo fuori. Le condizioni di vita erano molto peggiorate, tanto da rimpiangere il nostro vecchio campo che nel frattempo era stato riempito fino all’inverosimile dai deportati che arrivavano a piedi da Auschwitz. Li sentivamo arrivare strascicando gli zoccoli che avevano ai piedi. Era un rumore continuo che durava giorno e notte. Ancora oggi nel silenzio della notte sento quel rumore e rivedo quelle file interminabili di scheletri, vestiti di stracci, passare lentamente. Faceva molto freddo e in questo campo non avevamo una stufa così prendevamo le coperte cercando di sopportare l’assalto dei pidocchi. Ricordo che un giorno un ragazzo della nostra baracca non obbedì ad un ordine di un SS e per punizione lo costrinsero a rimanere nudo fuori dalla baracca. Arrivò la sera e venne la notte. E lui dovette rimanere sempre lì. Lo annaffiavano con una pompa dell’acqua. La mattina lo trovammo morto. Rimanemmo a Bergen-Belsen per undici mesi. Pochi mesi prima della fine della guerra, grazie al nostro passaporto turco, fummo liberati dalla Croce Rossa Turca. Era il 4 marzo del 1945. (Il campo fu liberato dagli inglesi e i canadesi della 11ª Divisione Corazzata dell’esercito britannico il 15 aprile 1945 ndr.) Il viaggio di ritorno non fu cosa facile, durò circa un anno. Poi finalmente giungemmo a Milano. La nostra casa era stata svuotata di tutto. Negli appartamenti non ritrovammo più i nostri parenti e nemmeno le altre famiglie ebree. La maggior parte di loro era morta nei campi. Mio papà tornò gravemente malato e non fu più in grado di lavorare. Così mio fratello ed io fummo costretti a trovare un’occupazione per mantenere la famiglia, rinunciando così definitivamente agli studi. Mosè Dana

Si ringrazia la figlia Margherita Dana per la trascrizione delle memorie di suo padre. Mosè Dana, figlio di Salomone Dana e Malcunna Boton è nato in Italia a Milano il 5 febbraio 1931. È sopravvissuto alla Shoah. Convoglio del 19/05/1944 partito da Milano.

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