Luisa Soavi (F / Italy, 1932), Holocaust survivor

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Luisa Soavi (F / Italy, 1932), Holocaust survivor

Biography

Luisa Soavi was born January 3, 1932 in Italy, to a Jewish father and a Catholic mother (who died before the war). Since she was baptized, she was not subjected to the Racial Laws. After Sept 1943, Luisa was hidden by a priest, then the family attempted to cross the Swiss border. They made it but their freedom lasted only one day. They were sent back to Italy. (See Holocaust Refugee Children, Switzerland.) They were not arrested, however, and Luisa lived in hiding near Lodi in a Catholic orphanage until liberation.

Istituto Comprensivo di Monticelli e Caorso

“Mi chiamo Luisa Soavi e sono nata il 3 gennaio 1932 : questo significa che nel 1938, quando furono introdotte le leggi razziali, io avevo solo sei anni. La mia famiglia era composta da mio padre, due sorelle maggiori ed io. Mia madre, purtroppo, era morta. Mio padre era un negoziante : possedeva una importante drogheria di coloniali, prodotti di cui aveva anche un commercio all'ingrosso, che si sviluppava da Piacenza a Cremona e da Lodi a Cortemaggiore. Negli anni '30, in paese, non c’era più una comunità ebraica : tutte le famiglie, tranne la nostra, si erano ormai trasferite a Torino, Milano, Piacenza, Cremona già dagli anni '20. Erano prevalentemente famiglie di commercianti che cercavano altri sbocchi; inoltre i figli avevano quasi tutti studiato e avevano cercato altrove la loro strada. Nell'Ottocento, invece, la comunità era ancora numerosa e viveva nell'odierna via Garibaldi, detta “la contrada degli ebrei”, dove c’era anche la sinagoga. Oltre alla famiglia Soavi, c'erano i Foà, gli Ottolenghi, gli Osimo. Mia nonna era una Osimo : in quella famiglia, la cui casa si trovava dove oggi c'è il negozio di ferramenta, ci sono stati personaggi importanti, tanto che a Milano e a Piacenza ci sono delle vie con questo nome. Il fratello di mio padre abitava a San Pedretto : aveva dei terreni e si dedicava al commercio di granaglie. Un altro fratello, invece, si era trasferito a Milano, dove, nei primi anni Trenta, era diventato direttore amministrativo del “Corriere della Sera”. Con le prime leggi razziali il lavoro di mio padre subì delle limitazioni : non poteva più muoversi liberamente nei comuni in cui era solito lavorare, inoltre vennero limitate anche le attività a cui poteva accedere. Noi ragazze andavamo a scuola : non ricordo bene il perché, ma non fummo allontanate e potemmo proseguire regolarmente gli studi. Mia madre era cattolica…forse fu per questo motivo…I nostri beni, per il momento, non furono confiscati : si “limitarono” a sequestrarci la macchina che serviva a mio padre per lavorare e la radio, unico mezzo di informazione. Arrivò l'8 settembre : i Tedeschi occuparono l'Italia del centro nord, dove si insediò la Repubblica di Salò. Solo allora per noi ebrei italiani iniziò il problema della sopravvivenza perché iniziarono le deportazioni. Nell’agosto dello stesso anno era morta una delle mie sorelle : dopo la sua morte, mio padre decise che dovevamo fuggire dal paese. Mandò me e l'altra mia sorella nelle montagne del parmense presso un sacerdote che ci accolse nella sua umile casa e ci mise a disposizione quel poco che aveva : funghi, polenta e castagne. Rimanemmo in quel luogo per circa un mese. Nel frattempo mio padre aveva organizzato una vera e propria fuga in Svizzera. Avevo 11 anni, mia sorella 18 : mettemmo in valigia lo stretto necessario e mio padre cercò di recuperare tutti i soldi che aveva guadagnato. Non era una cosa semplice, perché, lavorando nel commercio, aveva a disposizione più merce che denaro e molta merce era rimasta a Monticelli. Bisognava trovare un posto sicuro per passare la frontiera e qualcuno che ci accompagnasse : ci voleva molto denaro per pagare i “passatori”. C’era anche il rischio di essere traditi da chi doveva accompagnarci oltre confine : era già successo che intere famiglie ebree avevano pagato per il passaggio e poi erano state uccise e derubate di tutto il denaro e dei gioielli che portavano con sé. Verso la fine di novembre del ' 43, mio padre trovò un passaggio nella zona del Lago Maggiore. Proprio da quelle parti, a Meina, poco tempo prima c'era stato un eccidio di ebrei da parte dei Tedeschi : una ventina di persone, donne, vecchi e bambini, erano state gettate nel lago. Non erano certo posti sicuri. Noi eravamo a Ghiffa, ospiti delle stesse persone che ci avrebbero accompagnato oltre confine. Partimmo alle sei di mattina del 3 dicembre 1943 : portavamo a mano le nostre valigie e indossavamo cappotti e scarpe pesanti, non certo adatti però al percorso che dovevamo compiere in mezzo alle montagne in pieno inverno. Dopo undici ore di cammino in condizioni terribili, arrivammo in un bosco : la rete del confine era alle nostre spalle! I nostri “passatori” non ci avevano traditi : erano stati soddisfatti del denaro che mio padre aveva offerto loro e avevano mantenuto la parola. Ora però eravamo soli : mio padre era sfinito e non si reggeva più in piedi, così mia sorella andò alla ricerca di qualcuno che potesse aiutarci. Tornò dopo mezz'ora con una guardia di frontiera che ci accompagnò in caserma : lì ci dissero che non potevamo rimanere e che dovevamo tornare in Italia ( era uscita proprio quel giorno una ordinanza per limitare questo genere di immigrazione). Mia sorella e mio padre passarono la notte lì in caserma, mentre io fui ospitata presso una famiglia, ma, la sera successiva, le guardie di frontiera organizzarono il nostro rientro in Italia con l‘aiuto di alcuni carabinieri, che in questo modo correvano gravi rischi. Tornati in Italia, ci rifugiammo nel lodigiano : mio padre in campagna, io e mia sorella in un orfanotrofio, dove si viveva di pochi soldi e della generosità della gente del posto che portava un po’ di legna, riso e farina. Da mangiare ce n’era veramente molto poco e il freddo era tanto. Durante il giorno aiutavo le suore nei lavori manuali : facevamo anche centrini e cose varie che probabilmente venivano loro commissionate. Nel frattempo avevamo ripreso la scuola. Mia sorella era iscritta all’Università cattolica e riusciva a sostenere qualche esame, io iniziai la 2° media in un collegio di Lodi nel gennaio 1944. In estate ci sfollarono in un paesino della campagna lodigiana e l’anno seguente non potei proseguire la scuola. Ad un certo punto del 1945 si cominciò a capire che la guerra stava per finire e che i Tedeschi erano vicini alla disfatta: questo però poteva anche renderli più pericolosi, più cattivi. Il ’25 aprile 1945, finalmente, si arrivò alla liberazione. Il ’29 aprile, mio padre decise di tornare a Monticelli : partì in bicicletta e attraversando il Po con un traghetto di fortuna perché i ponti erano stati tutti bombardati, giunse in paese dove molti non lo riconobbero perché era molto cambiato e dimagrito. Incontrò un gruppo di partigiani di Monticelli che ormai erano tornati in paese : Nato Ziliani, Francesco Bosi, detto Menelik, Emilietto Azzoni ed altri. Saputo da mio padre che io e mia sorella eravamo nell’orfanotrofio di Lodi, decisero di venirci a prendere con una camionetta. Il 30 aprile ci riportarono a casa : fu un momento molto commovente! Nell’entusiasmo generale, tutto il paese era davanti a casa nostra a fare una gran festa perché sapevano che stavamo per arrivare. Durante la nostra assenza, però, la nostra casa era stata occupata da altre persone, perciò per un paio di mesi fummo ospitati a casa di amici. Il negozio, che avevamo lasciato pieno di merci, era stato completamente svuotato e tutti i soldi che erano stati guadagnati dalla vendita dei prodotti, in nostra assenza, li aveva incassati il Comune. Mio padre si trovò così, a cinquant’anni, senza una lira e senza merci. Ma non si perse di coraggio : con la bicicletta ricominciò a lavorare e a poco a poco, con grandi sacrifici, riprese il suo giro di affari. Anzi, rifiutò gli aiuti che gli Alleati volevano dargli come risarcimento per le perdite subite : disse loro di destinarli a chi stava peggio di noi. Era stata dura…quello che avevamo passato era stato gravissimo…ma quando, dopo la guerra, venimmo a sapere quello che era successo a tanti milioni di ebrei, la nostra esperienza ci sembrò quasi una vacanza. Inoltre fu proprio durante la guerra che potemmo mettere alla prova la vera amicizia di tante persone : qualcuno ci tolse il saluto, ma altri ci furono vicini e ci aiutarono…questo non va dimenticato”.

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