Sylva Sabbadini (F / Italy, 1928), Holocaust survivor
Sylva Sabbadini (F / Italy, 1928-2019), Holocaust survivor
Biografia
Sylva Sabbadini, figlia di Elio Sabbadini e Ester Hammer è nata in Italia a Monfalcone il 23 febbraio 1928. Arrestata a Terraglione Vigodarzere (Padova) il 24 dicembre 1943. Condotta alla Risiera di San Sabba e quindi deportata nel campo di sterminio di Auschwitz (arrivo il 3 agosto 1944). È sopravvissuta alla Shoah. Liberata il 27 gennaio 1944. Muore a Milano nel 2019.
Pagine ebraiche (27 giugno 2019)
Cordoglio per la scomparsa nelle scorse ore a Milano di Sylva Sabbadini, deportata all’età di 13 anni nei Lager nazifascisti e sopravvissuta ad Auschwitz e alle torture del medico nazista Mengele. “Abitavamo a Padova, dove mio padre faceva l’ingegnere. Io sono una di quelle ragazze che quando nel 1938 entrarono in vigore le leggi razziali venne espulsa da scuola. Mio padre, che era un funzionario del ministero dell’Agricoltura, perse il lavoro. Un giorno il questore di Padova arrivò a casa nostra e disse a mio padre che era venuto il momento di tagliare la corda e così scappammo in campagna ospiti di una famiglia di contadini”, aveva raccontato Sabbadini in un’intervista al portale varesenews. Una delazione porterà all’arresto di tutta la famiglia, tradotta prima alla Risiera di San Sabba (Trieste) e poi deportata l’anno successivo ad Auschwitz, mentre il padre e lo zio saranno portati a Dachau e assassinati. “Quando arrivai ad Auschwitz – la sua testimonianza – avevo tredici anni e mezzo e mi salvai dalla camera a gas perché ero già formata, sembravo una donna adulta, quindi potevo lavorare. Una ragazza della mia età, alta e secca, che viaggiava con me, venne spedita subito a morire. Rimasi sempre con mia madre, lei parlava lo yiddish, la lingua della sua famiglia, e quindi capiva bene anche il tedesco, aspetto molto importante per sopravvivere. Un pomeriggio arrivò nella nostra baracca il dottor Mengele e mi scelse insieme ad altre due ragazze per delle sperimentazioni mediche. Ci trasferirono nell’infermeria. Eravamo sedute e aspettavamo di essere chiamate, intuendo quello che ci aspettava”. Dopo la liberazione di Auschwitz, Sabbadini e la madre rimasero per altri tre mesi nel campo: “L’odore dei cadaveri che bruciavano era insopportabile, volevamo andarcene a tutti i costi. Mia madre conobbe un ufficiale rumeno che ci portò a Bucarest. Una volta lì contattammo il console italiano. Ci venne incontro un uomo elegante che ci portò in un appartamento molto bello dove c’erano altri italiani. Mia madre vide un pianoforte e lo fissò a lungo, senza parlare. Non mi meravigliai, dopo tutto lei era una concertista e come quasi tutti i componenti della sua famiglia suonava il pianoforte e il violino. Erano emigrati agli inizi del ‘900 da Odessa, quando era ancora Russia, a Trieste. A un certo punto si avvicinò a quel grande pianoforte a coda, si aggiustò il seggiolino, iniziò a premere sui tasti. Fu così che ricominciammo a vivere”. Una testimonianza da ricordare. Il funerale di di Sylva Sabbadini si è tenuto nelle scorse ore al cimitero ebraico di Milano. Sia la sua memoria di benedizione.
Il Mattino di Padova (28 giugno 2019)
Si è spenta sabato scorso all’età di 91 anni, nella casa albergo per anziani “La Residenza” di Malnate (Varese), dove si era trasferita una decina d’anni fa quand’è rimasta vedova, Sylvia Sabbadini. Era l’ultima delle tre donne deportate da Vo’ che sopravvissero al campo di sterminio di Auschwitz. Le altre due erano Bruna Namais e la mamma di Sylvia, Ester Hammer di origine tedesca. Nata a Monfalcone il 23 febbraio del 1928, figlia di Bruno Sabbadini, dirigente del ministero dell’Agricoltura, nella notte del 23 dicembre del 1943 venne arrestata assieme alla mamma e allo zio in una casa a Terraglione di Vigodarzere, dov’erano sfollati, e rinchiusi nel campo di concentramento degli ebrei di Padova e Rovigo di villa Contarini Giovanelli Venier di Vo’ Vecchio.
GELATERIA ALL’ARCELLA. La famiglia di Sylvia gestiva negli anni 40 una gelateria all’Arcella sotto falso nome, perché ebrei: l’attività era intestata al marito della loro donna di servizio. Ma come successo ad altri ebrei furono costretti a lasciare il negozio e scappare, su consiglio del questore di Padova. Finirono a Vigodarzere, ospiti di una famiglia di contadini. Ma furono traditi: un brutto giorno si presentarono alla fattoria le SS che arrestaeono Sylvia, la mamma e uno zio. Risparmiarono la nonna perché aveva più di 60 anni. A Villa Venier Sylvia rimase per poco più di sei mesi, fino a quando il 17 luglio del 1944 il campo venne smantellato e i 47 ebrei presenti furono condotti dapprima a Padova e due giorni alla Risiera di San Sabba, dove il 31 luglio furono caricati su un carro bestiame con destinazione Auschwitz.
CAMPO DI STERMINIO. «Quando arrivai ad Auschwitz avevo 13 anni e mezzo e mi salvai dalla camera a gas perché ero già formata, sembravo una donna adulta, quindi potevo lavorare», ha raccontato Sylvia in una delle tante interviste rilasciate negli anni «Una ragazza della mia età, alta e secca, che viaggiava con me, venne spedita subito a morire. Rimasi sempre con mia madre, lei parlava lo yiddish, la lingua della sua famiglia e quindi capiva anche il tedesco». Sopravvisse sino alla liberazione, nel gennaio del 1945. Sylvia e la madre rimasero per altri tre mesi ad Auschwitz a servire alla mensa ufficiali, poi si spostarono a Bucarest, quindi Bari. Solo successivamente a Padova dove riaprirono la gelateria. In seguito Sylvia conobbe un operatore di borsa milanese, lo sposò e si trasferì a Milano.
CITTADINA ONORARIA. Nel 2001 in occasione della posa a villa Venier di una lapide con tutti i nomi dei deportati, l’allora sindaco di Vigodarzere, Roberto Zanovello, venne a sapere che la famiglia di Ester Hammer e Bruno Sabbadini era stata sfollata a Terraglione. Avviò quindi con l’Istituto comprensivo delle ricerche e riuscì a rintracciare Sylvia, l’unica ancora in vita. Nel luglio del 2003 il Consiglio comunale di Vigodarzere le conferì la cittadinanza onoraria. «Sono addolorato per la sua scomparsa, Sylvia era una donna esemplare» afferma Zanovello «Insieme siamo andati a Vo’ Vecchio, dopo i giorni della prigionia non ci era più stata. Insieme nel vedere quei luoghi abbiano vissuto delle forti emozioni. Mi ha fatto vedere quel numero di matricola, 16455, tatuato sul braccio sinistro. Per la comunità di Vigodarzere, soprattutto per i giovani, è stata una grande testimone di quelle barbarie».