Sergio De Simone (M / Italy, 1937-1945), Holocaust victim

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Sergio De Simone (M / Italy, 1937-1945), Holocaust victim.

Biography

The Children of Bullenhuser Damm Association

Sergio De Simone was born on 29 November 1937. He and his parents lived in Naples, Italy. His father Edoardo de Simone, a ship’s officer, was a Catholic. His mother Gisella, née Pelow, was a Jew. Edoardo de Simone was taken to Dortmund as slave labor. Gisella and Sergio moved to relatives in Fiume, northern Italy in the summer of 1943, because bombing by Allied forces made the situation in Naples too dangerous. But on 21 March 1944, Sergio, his mother and seven other members of the family, including his cousins Alessandra and Tatiana, were arrested and brought to the San Sabba transit camp near Trieste; on 4 April 1944 they were deported to Auschwitz. Sergio was forced to work as a runner there, until he was brought to Neuengamme Concentration Camp to be used for medical experiments. He was murdered here in Bullenhuser Damm on 20 April 1945.

His mother Gisella de Simone was taken to Ravensbrück Concentration Camp in the spring of 1945; although she was sick, she survived and was liberated from there. It was not until November 1945 that she returned to Italy, where she was reunited with her husband. The parents searched for their son Sergio. By the end of the 1940s, they knew that Sergio had been taken from Auschwitz to a concentration camp to the west, but when Edoardo de Simone died in 1964 he was ignorant of his son’s fate. Gisella de Simone found out about the criminal events at Bullenhuser Damm in 1983. On 20 April 1984 she took part in the remembrance ceremony at Bullenhuser Damm. But she refused to believe that Sergio was dead and, until she died, clung to the hope that he was still alive.

Book : Meglio non sapere (2005), by Titti Marrone

La giornalista Marrone ripercorre la vicenda di tre bambini ebrei deportati nel 1944 con le madri ad Auschwitz: le sorelline Alessandra (detta Andra) e Tatiana Bucci, di quattro e sei anni, e il cugino Sergio De Simone, di sei anni. Figli di matrimoni misti tra due sorelle ebree e due uomini cattolici, contrariamente alla norma del campo di sterminio i tre bambini e le loro madri non sono condotti alle camere a gas appena giunti ad Auschwitz, ma vengono immatricolati tutti e separati nel campo. L’istinto di sopravvivenza porta i piccoli, come ricorda Tatiana, ad annullare immediatamente la propria emotività (“non ricordo di aver mai né pianto né riso, ad Auschwitz”, p. 46) e a non porsi domande, in altre parole ad accettare le regole del campo, a non cercare la madre neppure quando cessano le sue visite e a non impressionarsi alla vista dei mucchi di cadaveri.

I tre bambini disimparano l’italiano e iniziano ad esprimersi nella babele delle lingue del campo, fino a quando un evento ne divide i destini: Andra e Tatiana, su suggerimento di una blockova che si era loro affezionata, non cadono nel tranello della selezione, mentre Sergio, alla domanda del dottor Mengele su chi volesse rivedere la mamma, non capisce l’inganno e fa un passo avanti, un passo che significa deportazione a Neuengamme, essere cavia umana di crudeli esperimenti pseudoscientifici ed impiccagione ad Amburgo, nella scuola di Bullenhuser Damm.

Tatiana e Andra restano, invece, nel blocco 11 di Auschwitz sino alla liberazione del campo, quando sono condotte a Praga. Qui ricordano i loro nomi, ma non la loro provenienza, e per un anno e mezzo abitano in un istituto per bambini ebrei orfani dove imparano il ceco e vivono in una sorta di attesa, rotta nel marzo 1946 quando inizia, finalmente, il ritorno all’infanzia: accolti nella campagna inglese di Lingfield con altri bambini sopravvissuti ed educatori a loro volta scampati allo sterminio nazista, i bambini sono per la prima volta seguiti psicologicamente e aiutati a riappropriarsi del gioco, dell’istruzione, della curiosità per il mondo circostante, della propria sfera emotiva e affettiva.

La vita serena di Lingfield cessa, paradossalmente, quando i genitori delle due bambine riescono finalmente a ritrovarle tramite la Croce Rossa e, nel dicembre 1946, tornano in Italia, in un Paese di cui non conoscono più la lingua e da una famiglia che non ricordano. Inizia una nuova, difficile fase di adattamento, cui si aggiunge la difficile responsabilità di soddisfare i desideri della zia che spera nel ritorno di Sergio e di tutti gli altri ebrei che non hanno rivisto i loro bambini, come ricorda Andra (pp. 10-11):

Ci mettevano in mano tutte quelle foto e noi non sapevamo perché. Le

guardavamo, ma ci sembrava di non riconoscere nessuno. Eravamo piccole, probabilmente un po’ impaurite, non avremmo voluto essere lì […]. Però avvertivamo che ci si aspettava qualche cosa da noi. Istintivamente ci sembrava difficile troncare quelle attese con dei no o alimentarle con dei sì. Così per non farci capire, io e mia sorella confabulavamo in ceco tra noi, ci consultavamo per ogni foto che ci veniva mostrata […]. Avevamo solo sette e nove anni, ci sentivamo pressate da tutta quella gente, e molto confuse.

Anche se Sergio non tornerà, sua madre Gisella non accetterà mai di dichiararlo morto e ancora negli anni Ottanta, quando il giornalista Günther Schwarberg ha ormai identificato suo figlio in una delle piccole vittime di Bullenhuser Damm, dichiarerà di dover diventare molto vecchia per aspettare l’arrivo di Sergio.

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