Ester Calò (F / Italy, 1928), Holocaust survivor
Ester Calò (F / Italy, 1928), Holocaust survivor
Biografia
Ester Calò, figlia di Davide Calò e Allegra Moscati è nata in Italia a Roma il 25 agosto 1928. Arrestata a Roma (Roma). Deportata nel campo di sterminio di Auschwitz. È sopravvissuta alla Shoah.
Istituto per la Storia del'Antifascismo e dell'Eta' contemporanea della Sardegna Centrale
Testimonianza a M. Moncelsi e registrata su nastro magnetico, Roma 19 ottobre 1996.
Sono nata a Roma il 25 agosto 1928. Mi ha arrestato la polizia italiana mentre ero a casa con le mie sorelle e un cognato, il 5 febbraio 1944. Assistevo mia sorella che aveva da poco partorito il suo quarto bambino; una vicina ci avvisò dell’arrivo della polizia e tre mie sorelle riuscirono a fuggire scavalcando la finestra e rifugiandosi da una vicina di casa, mentre io non volli abbandonare l’altra che era convalescente.
Entrando in casa, i poliziotti chiesero di mio cognato. Avrebbero voluto portare via tutti: mia sorella tentò di salvarmi dicendo che ero una domestica, ma loro non ci credettero e decisero di arrestare me e suo marito, lasciando salvi i bambini con la mamma. Per strada tutti gridavano e chiedevano il perché del nostro arresto (io avevo 15 anni e mezzo, ma ne dimostravo meno) ma non ricevettero risposta. Fummo trasportati in Questura e separati, e da allora non ho più rivisto mio cognato. Un’ora dopo una guardia mi accompagnò a piedi a Regina Coeli: sarebbe bastato uno spintone per poter fuggire, ma avevo troppa paura per provarci e la seguii in silenzio. Una volta dentro, capii di essere prigioniera: ero con altre tre ragazze, ma erano molto diverse da me e si vedeva che erano abituate al carcere. Tre giorni dopo mi fecero scendere nel cortile, dove trovai altre ebree che conoscevo. Giunsero due pullman che ci trasportarono fino al carcere di Modena; non fummo trattenuti perché non avevamo commesso alcun reato, quindi ci trasferirono a Verona, nella caserma di Ponte Cittadella, dove rimanemmo per circa un mese. Non era un vero carcere e mangiavamo come i soldati, ma eravamo comunque prigionieri e io sentivo molto la mancanza della libertà, perché ero abituata a girare liberamente per le vie della mia città.
Due ebrei triestini riuscirono a fuggire e a causa loro, il giorno dopo, fummo trasferiti al campo di Fossoli, che era in mano ai tedeschi. Il treno che portava gli ebrei in Germania entrava dentro il campo, quindi la gente del circondario non si rendeva conto del continuo ricambio di prigionieri: li credeva sempre gli stessi, e non poteva immaginare la loro sorte.
Il 16 maggio 1944 iniziò il viaggio che ci avrebbe condotto ad Auschwitz; durò circa una settimana, e si svolse entro vagoni piombati. Quando arrivammo a Birkenau la giornata era appena iniziata; stava albeggiando quando fummo fatti scendere sulla rampa. Qui avvenne la prima selezione, tra abili e non abili al lavoro; vedendo che molti venivano incolonnati senza abiti addosso, mi stupii perché faceva molto freddo, pur essendo primavera inoltrata, ma non sapevo ancora che quei poveretti erano destinati alle camere a gas.
Io mi salvai per caso, perché una mia amica, che aveva una creatura in braccio, si rifiutò di lasciarmela anche per poco, e insieme furono separate da me. Da quel momento non le rividi più.
Essendo abile al lavoro, venni preparata per la immatricolazione: ci portarono in una baracca dove ci fecero spogliare, ci tatuarono un numero sul braccio, ci rasarono e, con addosso abiti presi a caso dal mucchio e un paio di zoccoli, fummo avviate alle nostre baracche. La mia si trovava vicino alle cucine, e spesso cercavo nei bidoni vuoti del rancio qualche resto di zuppa. Sopravvivevo alle selezioni che erano continue, soprattutto quando era in arrivo un nuovo convoglio. Ogni volta per me era un incubo perché ero piccola e magra e temevo di essere inviata alle docce, che ormai sapevamo tutti cosa fossero, e riuscivo a sfuggire nascondendomi in un blocco dove si trovavano gli ammalati di scabbia. Ma era sempre meglio che finire in gas! Infatti, benché non avessi mai visto i crematori, tranne il loro fumo nero e puzzolente, sapevo che quando il cielo diventava rosso le docce avevano lavorato. Avevo terrore persino delle poche volte in cui venivamo costrette a lavarci sotto le vere docce, e tremavo finché non vedevo che scendeva l’acqua: allora era un sollievo, benché quell’acqua fossa sporca e color ruggine, ed era vietato berne per il pericolo del tifo.
Il mio lavoro si svolgeva in fabbrica e consisteva nella trasformazione di stracci in trecce per pulire i cannoni: le dovevamo attorcigliare strette, affinché fossero dure e rigide, e se non lo erano abbastanza i kapò ci picchiavano senza pietà.
Nel gennaio del 1945, visto che il fronte russo avanzava, fummo avviati, attraverso la tristemente nota “marcia della morte”, ai campi che si trovavano in Germania. Io finii a Bergen Belsen, dove rimasi fino al giorno della liberazione, il 15 aprile. Incontrai altre romane, deportate come me, tra cui Settimia Spizzichino, che era stata anche lei ad Auschwitz ma che non avevo visto prima: trascorremmo gli ultimi mesi di prigionia insieme, facendoci forza a vicenda.
Ritornammo insieme a Roma, a settembre, dopo aver riacquistato un po' di peso; quando gli inglesi ci liberarono, pesavo 25 chili.